L’inizio della “quarantena titina” e la tragedia delle città martiri della Venezia Giulia
TRIESTE – GORIZIA – VENEZIA GIULIA. Ottant’anni fa, il 1° maggio 1945, mentre l’Europa festeggiava la liberazione dal nazifascismo, per le città italiane di confine cominciava una nuova tragedia. Le truppe jugoslave del maresciallo Tito, approfittando della ritirata dell’esercito tedesco, entravano a Trieste e a Gorizia (l’ingresso dei titini a Gorizia avvenne il 2 Maggio), inaugurando 42 giorni di terrore e repressione nei confronti della popolazione italiana e delle istituzioni dello Stato.
Nelle prime ore del mattino del 1° maggio 1945, i reparti dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, appoggiati da milizie partigiane comuniste locali, penetravano in città. Mentre gli insorti triestini erano ancora impegnati a combattere gli ultimi nuclei tedeschi, l’occupazione jugoslava cominciava a prendere forma. La cosiddetta “quarantena titina” avrebbe portato con sé arresti di massa, deportazioni, sparizioni e infoibamenti.
La “liberazione” da un incubo ne apriva un altro. Per 42 lunghissimi giorni, la Venezia Giulia conobbe l’arbitrio, gli arresti sommari, la repressione violenta, la deportazione e la morte. Furono giorni di paura, soprattutto per chi si sentiva — o semplicemente era — italiano. Chiunque non manifestasse un consenso esplicito alla nuova autorità titina veniva preso di mira: civili, militari, funzionari pubblici.
Lo ricordava lucidamente il capitano Ercole Miani, comandante della Divisione “Giustizia e Libertà” del Corpo Volontari della Libertà triestino, in un’intervista pubblicata nel 1954 sul periodico Trieste:
“Fino alle 12 di quel giorno, il comportamento delle truppe slave regolari si mantenne normale. Successivamente si profilò un cambiamento radicale. I reparti jugoslavi, guidati da partigiani comunisti italoslavi, che già disponevano di elenchi di persone da eliminare, procedettero a migliaia e migliaia di arresti”.
Una lista già pronta. Secondo Miani e altre testimonianze, le formazioni partigiane comuniste italoslave avevano già preparato elenchi di persone da eliminare. Il nemico non era più l’occupante nazista ormai in rotta, ma lo Stato italiano e chi lo rappresentava.
Le vittime?
Tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano, o che semplicemente non mostravano entusiasmo per l’occupazione: Guardie di Finanza, agenti di Pubblica Sicurezza, carcerieri, civili, resistenti non comunisti. In particolare, la Guardia di Finanza fu colpita duramente, nonostante avesse combattuto i nazisti a fianco del CLN solo pochi giorni prima, durante l’insurrezione cittadina del 30 aprile. Molti vennero deportati, altri – come è tristemente noto – furono gettati vivi nelle foibe, tra cui quella di Basovizza.
Nel frattempo, le residue truppe tedesche asserragliate nel Tribunale di Trieste e nel Castello di San Giusto continuarono a resistere. Solo l’arrivo della 2ª Divisione corazzata neozelandese dell’VIII Armata angloamericana, il 2 maggio, convinse i tedeschi alla resa. Ma la “quarantena titina” era appena cominciata, e avrebbe segnato in modo indelebile la memoria collettiva della città e dell’intera regione.
Ricordare per non dimenticare. A ottant’anni da quegli eventi, il ricordo dei 42 giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste e Gorizia non è solo un esercizio storico. È un dovere civile, per rendere giustizia alle vittime e per comprendere, con lucidità e senza revisionismi, le ferite profonde della nostra storia nazionale. Per decenni, quella pagina di storia è stata dimenticata o minimizzata. Solo negli ultimi anni è emerso con più forza il bisogno di ricordare con onestà il dramma vissuto dagli italiani della Venezia Giulia, di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume, Zara. Non per riscrivere la storia, ma per completarla.
Vuoi contribuire alla memoria storica?
Invia le tue testimonianze, foto d’epoca o documenti all’indirizzo [email protected]
La storia si scrive anche con le voci di chi l’ha vissuta.