La scritta al Consolato sloveno di Trieste: la verità oltre le prime accuse

Giuseppe Sartore

Agosto 26, 2025

Consolato sloveno Trieste

Per chi è cresciuto con i racconti degli esuli dall’Istria, la storia di Trieste e dell’Istria non è un semplice capitolo di libri di scuola, ma un dolore vivo, un’eredità fatta di dignità e di una terra “si bella e perduta”. Osservo le dinamiche di una città che si dibatte, ancora oggi, tra identità e rivendicazioni. Per questo, la vicenda del Consolato Generale sloveno di Trieste, avvenuta all’inizio di agosto, ha un sapore amaramente familiare.

Mi riferisco a quel pezzo di carta affisso all’ingresso della sede diplomatica, con la scritta, tutt’altro che gentile, “CONSOLATO DEI SLAVI DI MER**A”. In un attimo, il solito circo mediatico-politico è scattato in piedi, con un’unanimità quasi comica. Esponenti del centrosinistra, esponenti di una certa destra e, immancabilmente, i rappresentanti della minoranza slovena, si sono strappati le vesti. La narrazione era già pronta e perfetta: un atto neofascista, un rigurgito d’odio locale, la dimostrazione dell’intolleranza italiana verso la minoranza e la nazione slovena.

L’eco è arrivata fino a Lubiana, dove il Capo di Stato sloveno, Nataša Pirc Musar, si è affrettata a definire la scritta un “attacco inammissibile alla comunità slovena in Italia e alla stessa Slovenia”, invocando indagini “con la dovuta serietà”. Dello stesso avviso il Ministero degli Esteri sloveno, che ha tirato in ballo “i capitoli più oscuri della storia del ventesimo secolo”, un’accusa pesante e dal retrogusto inquietante per chi sa cosa è stato il Novecento in queste terre. Un vocabolario, quello utilizzato, che a noi esuli fa venire i brividi.

Per settimane, la città e i media hanno vissuto in questa bolla di presunta colpa collettiva, un auto-flagellamento che abbiamo visto troppo spesso. L’accusa era chiara: la Trieste italiana era la patria di un odio atavico e irrazionale. La minoranza, come sempre, si ergeva a vittima, pura e innocente, perseguitata da fantasmi di un passato che sembra non voler morire. Una narrazione che a noi, figli e nipoti di esuli, suona a dir poco falsa. Sappiamo bene chi ha coltivato l’odio e chi ha perpetrato le violenze. Anzi. Eravamo noi, con le nostre famiglie, a cercare riparo da chi voleva negare la nostra identità e spazzarci via da casa nostra.

Il silenzio che vale più di mille parole

Dopo quindici giorni di indagini scrupolose e svolte con la “dovuta serietà” invocata da Lubiana, è arrivato il colpo di scena. La Digos ha individuato l’autore della scritta. Non un italiano, non un triestino nostalgico di chissà quale passato, ma un soggetto con cittadinanza italiana e nazionalità slovena. Dunque, un membro di quella stessa minoranza che per settimane aveva indossato i panni della vittima. Un fatto, come emerso dalle prime indiscrezioni, legato a questioni personali e non a motivazioni politiche o xenofobe generalizzate, anche se l’accusa di diffamazione aggravata dalla discriminazione razziale resta pendente.

E qui casca l’asino. Tutta la narrazione costruita sull’odio razziale, sul neofascismo e sui “capitoli più oscuri del Ventesimo secolo” è crollata in un istante. E con essa, è crollata la credibilità di tutti coloro che si erano affrettati a saltare sul carrozzone del moralismo a buon mercato. Non c’è stata una conferenza stampa della presidenza slovena per chiedere scusa per le accuse infondate? E i rappresentanti della minoranza, che avevano gridato allo scandalo, hanno pubblicato una nota di rettifica, riconoscendo l’errore e scusandosi per aver innescato una polemica basata su un falso presupposto? La risposta, prevedibilmente, è un silenzio assordante. Un silenzio che vale più di mille parole e che dimostra, ancora una volta, la natura di certe rivendicazioni. Il vittimismo, quando fa comodo, è una narrazione potente. Ma quando i fatti smentiscono la trama, non resta che la vergogna.

Riaffermare l’identità in una terra di confine

Questo episodio, apparentemente piccolo, è in realtà emblematico di una tensione che a Trieste si respira ancora oggi. La questione del confine, della sovranità e delle identità è una ferita che non si è mai completamente rimarginata, e che viene sovente riaperta, spesso in modo strumentale. La narrazione di una minoranza slovena costantemente oppressa e perseguitata fa comodo a molti, serve a giustificare rivendicazioni politiche e a dare peso a questioni che, se analizzate con onestà intellettuale, si sgonfierebbero. La storia dell’esodo e delle foibe, ancora poco riconosciuta e spesso minimizzata da certa storiografia, ci ha insegnato a guardare con sospetto chi usa la storia a proprio vantaggio. E la vicenda del cartello al Consolato non fa che confermare questo nostro istinto.

Siamo figli di una terra che è stata strappata via, ma che non abbiamo mai dimenticato. Abbiamo imparato a difendere la nostra identità non con l’odio, ma con la verità. E la verità, in questo caso, ha smascherato l’ennesima montatura mediatica, dimostrando che i fantasmi del Novecento, a volte, sono evocati proprio da chi si proclama vittima. E se questo nostro non-simpatizzare per chi continua a gettare benzina sul fuoco delle tensioni è considerato un difetto, allora lo portiamo con orgoglio. Ci aspettiamo che, per una volta, l’onestà intellettuale prevalga e che chi ha sbagliato abbia il coraggio di ammetterlo.

 

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